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Dall’Asfalto al Cielo
Massimo aveva trentatré anni e un camion che era più in ordine della sua vita.
Lucido, impeccabile, profumato di pino silvestre e lavanda sintetica.
Dentro la cabina c’erano tappetini in memory foam, luci LED che cambiavano colore a seconda dell’umore, tendine con le frange dorate e, soprattutto, una placca cromata con inciso il suo soprannome: Il Capitano.
Massimo non era un capitano. E nemmeno un eroe romantico della strada. Era un ex sognatore convertito alla logistica.
Sette anni prima aveva preso la patente C e si era messo alla guida “giusto per guadagnare qualcosa mentre capisco cosa fare della mia vita”.
Ma la vita, come spesso accade, non gli aveva lasciato il tempo di capirlo.
Lo aveva inghiottito nella routine delle aree di servizio, dei panini confezionati e delle docce con gettone.
All’inizio, Massimo diceva a se stesso che viaggiare in autostrada non era poi così diverso dal viaggiare nel mondo. Sempre strada era. Bastava avere fantasia. Bastava ignorare il fatto che non stava esplorando il Sudamerica ma consegnando detersivi tra Brescia e Caserta.
Poi la fantasia aveva cominciato a scarseggiare.
Così aveva iniziato a decorare il camion. Un gadget alla volta.
Prima un volante rivestito in pelle sintetica rossa, poi uno stereo da mille euro che faceva vibrare i reni, poi i led, poi il frigo portatile, poi il portafoto digitale con slideshow automatico di donne nude trovate su internet.
Per ogni sogno lasciato indietro, Massimo aggiungeva un accessorio.
E ogni volta che qualcuno gli chiedeva come stava, rispondeva:
“Alla grande, zio. Ho appena montato i cerchi nuovi.”
Nessuno gli chiedeva mai se era felice. E forse era meglio così. Perché Massimo non era sicuro di sapere cosa avrebbe risposto.
La casa di Massimo era un bilocale anonimo affacciato sulla tangenziale est. Dentro ci passava meno tempo di quanto ne passasse in coda sull’A1.
Era il classico appartamento da “torno solo per dormire”, con la differenza che non lo usava nemmeno per quello: dormiva meglio nella cuccetta del suo camion.
Aveva comprato un divano letto che non aveva mai aperto, un tavolino di vetro su cui nessuno aveva mai poggiato un caffè, e un set di piatti Ikea ancora incellofanato.
Una volta aveva anche provato a coltivare una piantina di basilico sul davanzale, ma era morta di solitudine.
La verità era che Massimo non aveva mai smesso di desiderare una vita diversa.
Lo sentiva ogni volta che passava vicino a Malpensa e vedeva gli aerei decollare. Ogni volta che sentiva i clienti parlare di viaggi, di ferie, di luoghi dove lui non era mai stato. Ogni volta che apriva Instagram e si ritrovava incastrato tra tramonti balinesi e zaini in spalla.
“Un giorno lo faccio,” diceva a se stesso.
Ma poi arrivava il bonifico mensile dell’azienda, il bollettino della luce, l’offerta su Amazon per un nuovo kit di decorazioni per camion… e Massimo rimandava. Sempre.
C’era qualcosa di rassicurante nel suo lavoro. Sapeva dove doveva andare, cosa doveva fare, e anche se lo faceva controvoglia, almeno nessuno gli chiedeva di mettersi in discussione.
L’autostrada era dritta. La vita no.
E così, a trentatré anni, Massimo si era convinto che ormai fosse troppo tardi per cambiare rotta. Che fosse meglio restare dove sapeva stare. Che il suo futuro fosse scritto sul cruscotto, in quella lunga lista di consegne e soste obbligatorie.
Poi, un giorno, successe l’unica cosa che non era scritta in nessuna lista.
Era una mattina di nebbia sulla A1. Massimo aveva dormito poco (niente di nuovo) e si era svegliato con il solito nodo nello stomaco che ormai era diventato parte di sé.
Come da routine, aveva acceso la radio, la macchinetta del caffè a 12V e il motore. Come se anche quel giorno potesse essere sopportabile con un po’ di caffè del cazzo e un pezzo di Vasco in sottofondo.
Stava trasportando solventi chimici verso Napoli. Il camion era carico, la strada era libera, e Massimo era nel mezzo di uno di quei pensieri che non portano da nessuna parte, quando una Punto blu con le quattro frecce sbucò all’improvviso dalla corsia d’emergenza.
L’urto fu violento. Sordo. I freni urlarono come un elefante ferito. Poi tutto si capovolse: l’asfalto, il cielo, la lamiera.
Massimo si svegliò tre giorni dopo, in una stanza d’ospedale che puzzava di disinfettante e silenzio.
Aveva otto costole fratturate, una gamba spezzata in due punti, e un polmone collassato. I medici dissero che era stato fortunato. Lui pensò che doveva essere uno scherzo.
I giorni seguenti furono una lunga sequenza di aghi, flebo e facce preoccupate. I colleghi gli scrivevano messaggi frettolosi. I familiari, quei pochi che aveva, gli facevano visita per dovere. Ma Massimo non parlava. Guardava il soffitto.
E nel silenzio di quelle giornate dolorose, cominciò a succedere qualcosa.
Non fu un’illuminazione. Fu più come un lento sbriciolarsi. Il camion, il lavoro, la routine… Tutto cominciava a sembrargli lontano. Finto. Come se non fosse mai stata davvero la sua vita, ma un ruolo che aveva accettato per inerzia.
E allora, in una di quelle notti insonni, mentre un’infermiera silenziosa gli cambiava la flebo, Massimo lo decise.
Che era il momento di abbandonare la via dritta dell’autostrada per affrontare la via tortuosa della vita.
Quando uscì dall’ospedale, camminava piano. Più per presenza che per dolore. Come se ogni passo meritasse attenzione.
Aveva ancora pezzi di metallo nelle gambe, due cicatrici fresche sotto la maglietta e una nuova paura negli occhi. Ma non era più la paura di cadere. Era quella di restare fermo.
La prima cosa che fece fu andare a vedere il camion. Il suo camion.
Lo trovò in un deposito giudiziario alla periferia sud di Parma, circondato da carcasse e relitti. Era accartocciato come un giocattolo spezzato. Il parabrezza esploso, il cofano piegato su se stesso, le portiere strappate via. Le luci a led pendevano come intestini elettrici. Il peluche a forma di bradipo era impiccato dallo specchietto, coperto di polvere.
Massimo non disse nulla. Si avvicinò, lo toccò. La lamiera era fredda. Ma sotto, c’era ancora quel colore verde bottiglia che aveva scelto lui. Quello che diceva: “Sono diverso dagli altri”.
Sorrise. Un sorriso piccolo. Non ironico. Di quelli che vengono quando smetti di mentire.
Quel camion gli aveva salvato la vita. E gliel’aveva anche presa. Non per l’incidente, ma per tutto il resto. Per gli anni spesi a costruirci sopra una maschera.
Quella cabina era stata la sua armatura. E ora giaceva lì, sventrata, come un animale sconfitto.
Chiamò un taxi e tornò a casa. Si preparò un caffè. Aprì il portatile ed entrò su Skyscanner:
Da: Milano Malpensa
A: Ovunque.
Solo andata.
Il mondo, all’improvviso, era tornato enorme, e i suoi occhi erano tornati a brillare.
Massimo passò la settimana successiva a casa.
Era strano notare quante cose avesse comprato senza mai usarle. Ogni oggetto pareva dirgli: “Hai provato a costruire una vita qui dentro, ma non ci sei mai stato davvero.”
Non c’era tristezza, solo una presa di coscienza.
Il caffè, quello sì, lo faceva ancora buono. E mentre sorseggiava dalla sua tazza preferita, quella con scritto King of the Road, apriva il portatile e guardava voli, mappe, contenuti di viaggio su YouTube, video di gente che camminava tra le montagne andine o ballava in una piazza piena di colori.
Aveva ancora le stampelle appoggiate alla parete. Erano un promemoria che gli ricordava: “Se sei ancora qui, qualcosa devi farne.”
Un giorno, con un gesto deciso, prese tutte le cose che non gli servivano e le inscatolò. Alcune le regalò. Altre le buttò. Tenne solo uno zaino, una fotocamera compatta, e un taccuino nero con la copertina rigida dove aveva scritto una frase:
Non so dove sto andando, ma non voglio più tornare indietro.
Poi si fermò davanti allo specchio del bagno. Si osservò in silenzio.
Aveva qualche chilo in meno, il volto scavato, la barba sfatta. Ma negli occhi, per la prima volta da anni, non c’era più il riflesso del camion, ma quello di un uomo che aveva deciso di riprendersi la vita.
Spense la luce. E uscì.
All’aeroporto di Malpensa pioveva. Una pioggia fine, delicata. Di quelle che sembrano voler lavare via le ultime esitazioni.
Massimo non aveva parenti a salutarlo, né amici a cui spiegare dove stesse andando. Non aveva raccontato a nessuno del volo, del biglietto, della scelta. Perché non era una partenza da annunciare, ma una resa privata.
Una resa alla vita.
Aveva con sé uno zaino, una camicia pulita e il passaporto ancora immacolato. Nient’altro.
La destinazione era Bogotá. Sudamerica. Un nome che gli era sembrato giusto quando lo aveva letto per la prima volta su Skyscanner, in mezzo ad altri mille. Non perché sapesse cosa avrebbe fatto lì, ma perché per arrivarci doveva attraversare un oceano.
E Massimo aveva capito che, per cambiare davvero, avrebbe dovuto fare il passo più lungo della gamba.
Il decollo fu silenzioso. Nessuna musica epica, nessuna scena da film. Solo la pressione nelle orecchie, la vibrazione del sedile e il cuore che si faceva spazio nel petto.
Guardò fuori dal finestrino. Le nuvole sembravano soffici abbastanza da dormirci sopra. E per la prima volta non si sentì più né camionista, né sopravvissuto.
Si sentì vuoto, e il vuoto, a volte, è una grazia.
Non stava scappando. Stava lasciando andare.
Dietro di sé, in un deposito polveroso, un camion verde bottiglia giaceva ancora distrutto. Un monumento al tempo perduto. Ma anche un confine. Il punto in cui finiva la vecchia vita e cominciava qualcosa che non aveva ancora nome.
Massimo chiuse gli occhi. E sorrise.
A domenica prossima,
Grazie per aver letto fin qui! ❤️
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Ho solo condiviso un racconto che, spero, abbia acceso una scintilla.
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Vuoi perché mi chiamo Massimo, vuoi perché ho vissuto 15 anni in giro per il mondo in autostop, vuoi perché anche a me piace parlare di crescita peronale e libertá mentale... mi sono permessso di condividere questo racconto
P.s. Magari un gorno facci dapere come vanno le cose a Masssimo a Bogotá
Grazie Riccardo, per questo racconto 🙏✨