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Il Perdono di Lokku
La tazza fumava tra le mani, sottile come la nebbia che risaliva dalla vallata.
Riccardo sedeva sulla terrazza di legno della guesthouse, ancora in ciabatte e con gli occhi mezzi chiusi. Di fronte a lui, il verde infinito delle colline di Ella. Era il suo terzo giorno lì, ma ancora non riusciva a credere che un posto così potesse esistere davvero.
Ogni volta che lo diceva a voce alta, Lokku scoppiava a ridere.
Quel mattino, Riccardo stava finendo la sua colazione: pane al cocco tostato, papaya e un uovo fritto. Lokku gli versava il tè con la calma di chi ha imparato che la fretta serve solo a peggiorare le cose.
«Posso farti una domanda?» disse Riccardo, guardando il vapore salire dalla tazza.
Lokku si appoggiò allo schienale della sedia con un sorriso disarmato. «Certo.»
«Qual è la tua storia? Voglio dire… come sei diventato chi sei oggi? Quali sono le esperienze che ti hanno forgiato?»
Lokku lo guardò, poi spostò lo sguardo verso le colline. Sembrava stesse cercando le parole tra le foglie di tè.
«Eh… lunga storia, amico. Ma se hai tempo…»
«Ho tutto il tempo del mondo.»
Lokku si sedette accanto a lui, con le gambe incrociate e il viso girato verso la valle. Bevve un sorso di tè e cominciò a raccontare.
Aveva quel tono di voce tipico di chi ha fatto pace con il proprio dolore, ma ancora ci convive. Come una cicatrice che ogni tanto pizzica, ma che ormai fa parte del tuo essere.
«Mia madre si chiama Sari. È piccola, dura come una noce di cocco e parla con gli occhi. Non l’ho mai vista piangere, nemmeno quando… vabbè, ci arrivo.»
Lokku si grattò il mento, pensieroso, poi continuò.
«Quando era incinta di me, ebbe un incidente. Una mucca impazzita — giuro su Dio — le si è lanciata contro mentre tornava dal mercato. C’è chi dice che la mucca fosse posseduta, chi dice che semplicemente era spaventata. Io dico che la vita è strana e spesso decide di iniziare con una barzelletta.»
«Il punto è che, quando mi hanno tirato fuori, avevo le caviglie storte. Non “storte” tipo brutte. No. Storte tipo che non potevo camminare.»
«Per i primi quattro anni della mia vita ho guardato gli altri bambini correre. Scalzi, felici, sporchi come solo qui sappiamo essere. Io invece restavo seduto. Guardavo e mi mangiavo le unghie.»
Fece una pausa.
«Non è facile sentirsi uomo quando tutti ti trattano come un uccellino caduto dal nido. Le zie mi dicevano che ero “speciale”. I bambini mi chiamavano “gamba rotta”. Una volta, un cane mi ha pisciato addosso mentre ero seduto a giocare con la sabbia. Non ho pianto. Ma dentro… dentro ho deciso che un giorno la vita mi avrebbe dovuto chiedere scusa.»
Riccardo lo guardava in silenzio. Lokku si accorse del suo sguardo e sorrise.
«Tranquillo, adesso ci rido sopra. Però all’epoca, amico mio, era tutto buio. Mia madre mi portò in un ospedale a Kandy. Servivano soldi, tanti. Non so come fece, ma li trovò. Alcuni dicono che vendette il suo unico anello d’oro. Altri dicono che convinse il medico con uno sguardo. Io credo che quando una madre vuole qualcosa per suo figlio, l’universo si spaventa e si sposta.»
«Mi operarono. Passai quattro mesi in ospedale. Quattro. I miei primi veri amici furono le infermiere. Una si chiamava Lakshmi e mi dava sempre un biscotto di nascosto. Quando tornai a casa, misi giù i piedi per terra per la prima volta. Tremebondo, ma camminai. Sembrava un miracolo. E forse lo era.»
«Da lì in poi, pensavo che tutto sarebbe andato meglio. Ma la vita, come sai, ama essere stronza. E io sembravo essere la sua vittima preferita.»
«Poi vennero gli anni della rabbia. Dai cinque in su camminavo, sì, ma dentro… correvo in tondo come un cane legato a un palo.»
Lokku si appoggiò alla ringhiera della terrazza, lo sguardo fisso sulle colline che si scioglievano nella luce del mattino.
«Ogni giorno mi svegliavo con un pensiero in testa: Perché io? Perché non ero nato in una famiglia con una casa vera, con scarpe vere, con sogni veri? Ero povero, zoppo e pieno di domande. Avevo l’impressione che l’universo intero mi avesse fatto uno scherzo di pessimo gusto. E quando hai quattordici anni e vivi in una capanna con il tetto che perde, credimi, l’illuminazione spirituale è l’ultima cosa che ti passa per la testa.»
Riccardo annuì in silenzio. Lokku continuò, con un sorrisetto stanco sulle labbra.
«Cominciai a rispondere male ai professori. Rubavo mango dal giardino del tempio. Mi prendevo a pugni con chiunque mi guardasse più di tre secondi. Non era solo rabbia. Era frustrazione. Era come se avessi un fuoco dentro e nessuno mi avesse mai insegnato a usarlo per scaldarmi, solo per bruciare.»
«Un giorno, al mercato, vidi un turista — italiano pure lui, sai? — che si lamentava perché il suo zaino era un po’ sporco. Io lo guardai e pensai: Ma davvero Dio ha fatto due mondi così diversi?»
«Tentai di cambiare la mia sorte. Provai a scappare a Colombo. Lavorai in un ristorante per due settimane, poi mi licenziarono perché avevo rotto tre piatti e risposto male al padrone. Tornai a Ella col cappello in mano, più incazzato di prima.»
«Ero convinto che la vita fosse un nemico. Una bastarda che ti mette al mondo e poi ti guarda affogare per divertimento.»
«Mia madre intanto invecchiava. Le mani sempre più nodose, il sorriso sempre più stanco. Io, invece di aiutarla, giravo come un cane randagio. Non riuscivo ad accettare che quella fosse la mia realtà. Non volevo. Era tutto troppo ingiusto. Ed è stato in quel punto preciso, dove la rabbia stava per diventare rassegnazione, che accadde una cosa strana.»
Lokku fece una pausa. Gli occhi gli si illuminarono.
«Avevo diciassette anni quando incontrai il monaco. Non era uno di quelli famosi, sai? Niente foto, niente statue, niente santità. Solo un vecchio con le sopracciglia come rami secchi e una risata che sembrava uscita da una capra.»
Lokku rise piano, poi si sedette accanto a Riccardo, allungando le gambe con lentezza.
«Mi trovavo fuori dal tempio, ci ero entrato per rubare dei dolcetti rimasti dalle offerte. Non proprio una missione spirituale. Lui mi beccò con la bocca piena e mi disse: Se vuoi rubare, almeno porta qualcosa via anche per la tua mente.»
«Mi diede un libro. Non so perché. Forse aveva capito che dietro i miei gesti c’era solo un ragazzino stanco di combattere. Il libro si chiamava La mente come un lago. Era semplice, pieno di metafore da villaggio, tipo “se butti un sasso nell’acqua, non puoi aspettarti che diventi tè”.»
Riccardo sorrise. Lokku gli lanciò uno sguardo complice.
«Lo lessi tutto. Più per noia che per convinzione. Ma certe frasi mi rimasero addosso. Una diceva: La vita non è una guerra, è una domanda. E tu sei la risposta. All’inizio non la capii. Ma suonava bene. Così, un giorno, provai a meditare. Mi sedetti sul pavimento, incrociai le gambe come avevo visto fare al monaco, e mi dissi: “Ok, universo, vediamo se riesci a fregarmi anche stavolta.”»
«I primi giorni fu un disastro. Pruriti ovunque, pensieri che sembravano scimmie ubriache, e una voce dentro che diceva: Sei scemo. Ma non mollai. Non avevo altro da fare, dopotutto.»
«Piano piano, iniziò a succedere qualcosa. Non fuori, eh. Dentro. Come se il rumore del mondo si abbassasse, e io potessi finalmente sentire il mio vero respiro. Cominciai a vedere la rabbia per quello che era: dolore travestito da leone.»
«Non ho trovato Dio. Non ho avuto visioni. Ma ho fatto una cosa che, per me, era più difficile del miracolo: ho smesso di odiare la mia vita.»
Lokku si fermò un attimo, chiuse gli occhi e inspirò profondamente l’aria di Ella, quella fatta di tè, fumo di legna e sogni poveri.
«Da lì è cambiato tutto. Ma non perché il mondo ha avuto pietà di me. No. Perché io, finalmente, ho avuto pietà di me stesso.»
Riccardo annuiva con la tazza di tè in mano. Lokku lo osservava divertito, come se ogni gesto del turista fosse una piccola commedia.
«Cominciai a fare piccole cose. Tagliare la legna con attenzione, pulire il cortile di casa anche se nessuno lo vedeva, aiutare mia madre a cucinare. Ma con cura, non con rabbia. Come se ogni cosa fosse una preghiera. Nessuno lo notava. Ma io sì. E questo bastava.»
Si alzò, si appoggiò nuovamente alla ringhiera della terrazza e indicò con il mento la casetta a un piano color crema.
«Quella lì è casa mia. O meglio… era. Perché poi è arrivato lui.»
«Chi?»
«Il signor Mahinda. Un uomo grosso, sempre in camicia stirata e ciabatte da casa. Aveva una piantagione di tè e un’ossessione per il business. Passava ogni giorno davanti casa mia, e una volta si fermò a parlarmi. Non so cosa vide in me. Fatto sta che una settimana dopo mi disse: Hai una buona energia. E una bella vista sulle colline. Ti aiuto a sistemare casa. Ma solo se poi impari a usare internet.»
Lokku rise di cuore.
«Internet! Io, che fino a quel momento non avevo nemmeno il telefono! Ma ho accettato. E così abbiamo rifatto il tetto, aggiunto due camere, sistemato il bagno… e lui mi insegnò a usare Booking.com. Il nome l’ho scelto io: Bella Ella. In onore di quel turista italiano che lamentandosi mi diede l’ispirazione di provare a cambiare la mia vita.»
«E funziona?»
«Funziona. Arrivano viaggiatori da tutto il mondo. Si fermano, mangiano il riso al cocco di mia madre, bevono il tè, e mi chiedono sempre: Come hai fatto? Come sei diventato felice qui? E io rispondo sempre la stessa cosa: Non ho scelto la mia vita. Ma ho scelto come guardarla.»
Fece una pausa, poi aggiunse con un sorriso:
«E poi ho anche un punteggio superiore a 9 su Booking, non male eh?»
Il sole si stava alzando lento sulle colline, e le ombre degli alberi sembravano stiracchiarsi come gatti stanchi.
Riccardo finì il suo tè in silenzio, guardando la vallata che si stendeva sotto di loro. Non sembrava avere altre domande. Solo quegli occhi pieni di gratitudine, che forse nemmeno lui sapeva spiegare.
Lokku si passò una mano tra i capelli, poi tornò a sedersi con calma. Si sistemò il sarong come faceva sempre suo padre, anche se lui non ci aveva mai trovato un senso. Ora lo faceva solo per rispetto.
«Sai cosa penso a volte, Riccardo? Che la vita mi ha fregato all’inizio. Mi ha dato le carte peggiori. Ma poi, col tempo… come dire… mi ha chiesto scusa.»
Riccardo sorrise, ma non disse nulla. Lokku guardò il cielo diventare sempre più caldo, poi si alzò e raccolse le tazze vuote.
«E io l’ho perdonata. Perché se non lo fai, ti porti addosso un peso che non ti appartiene. E adesso…» si stiracchiò con un’espressione teatrale, «mi preparo un altro tè.»
Mentre entrava in cucina, il vento sollevò una foglia secca dalla terrazza e la fece volare oltre la ringhiera, giù nel verde.
Ella respirava piano sotto la luce del sole, e nella casa di Lokku, anche il silenzio sembrava più leggero.
A domenica prossima,
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Bellissimo. Grazie mille 🙏😊
Se è stato un incontro, è stato un regalo. Bellissima e verissima la frase "Non ho scelto la mia vita. Ma ho scelto come guardarla.". Grazie