Benvenuto nella Cantina dei Dannati!
Mi chiamo Riccardo Cecco. Sono un viaggiatore senza dimora fissa, giro per il mondo e scrivo online.
Parlo di storie vere, viaggi e cambiamenti.
Nessuna stronzata.
Se sei finito qui per caso, forse non è un caso. E se qualcosa ti suona familiare… versati un bicchiere e fatti un giro nella Cantina!

Successe due mesi fa.
Era il primo giorno di apertura dell’ostello. C’era quell’aria densa di promesse non dette, portata dall’odore vago e rigenerante del vento del nord.
Dentro di me, quella specie di febbre elettrica che arriva con l’inizio dell’estate, quando tutto pare sul punto di accadere, eppure niente si è ancora mosso davvero.
Fu proprio in quel momento di sospensione, mentre fantasticavo sul futuro, che la porta si aprì.
Non lo sapevo ancora, ma chi stava per entrare non era solo una persona: era la manifestazione di un desiderio che avevo espresso qualche settimana prima.
Ma forse è meglio andare con ordine.
Impostiamo l’anno 2021 sulla DeLorean, attiviamo il flusso canalizzatore e torniamo indietro di qualche anno, in un tempo non così lontano, eppure già appartenente a un’altra vita.
Stavo attraversando il periodo di trasformazione più profondo che avessi mai conosciuto.
Iniziai a fare scelte drastiche, nel tentativo disperato, ma lucido, di tornare a galla. Una di quelle scelte fu quella di smettere di leggere le notizie.
Fino a quel momento, le questioni sociali e politiche erano il mio pane quotidiano. Mi informavo compulsivamente, con l’illusione che la conoscenza fosse anche azione. E forse lo era, ma il prezzo era altissimo: perdevo pezzi di fegato in discussioni notturne per difendere i miei ideali, e ogni mattina mi svegliavo col cuore pesante, sommerso da un senso d’impotenza che mi avvelenava la mente.
Avevo confuso la sensibilità con l’obbligo al dolore. Pensavo che soffrire per il mondo fosse un atto di giustizia, un modo per non essere indifferente. Ma non facevo che affondare. Ogni ingiustizia diventava una ferita personale, ogni notizia un colpo diretto al petto.
E così, senza rendermene conto, avevo lasciato che la mia identità si fondesse con la mia emotività, fino al punto in cui non riuscivo più a distinguere dove finivo io e dove cominciava il disagio.
Poi arrivò il covid, e con lui quella sottile ma implacabile mutazione nella percezione del mondo: le notizie smisero di essere grida lontane, e iniziarono a bussare alla porta di casa con la faccia seria e lo sguardo fisso. Non erano più cronache da altri continenti: erano la mia vita, la mia città, le persone accanto a me.
La tensione di quel periodo si impastava con tutto il resto. La distanza da casa che si faceva assenza. La fine di una relazione di sette anni che si addensava in incertezza. Il sogno spezzato di andare a vivere alle Azzorre che si era dissolto lasciandomi solo con l’eco di un progetto mai nato. Avevo lasciato il lavoro, stavo per lasciare la casa, e intorno a me non c’era più una strada chiara, solo direzioni sfocate.
In quel contesto già traballante, continuare ad assorbire ogni giorno il veleno lento dell’informazione drammatica, del bollettino quotidiano, del catastrofismo a reti unificate… era semplicemente ingestibile.
Mi accorsi, quasi di colpo, che dovevo smettere di nutrirmi di tutto quel dolore che non era mio, e che pure mi abitava. Già facevo fatica a reggere il mio, figuriamoci quello del mondo intero. Tenere il passo con le notizie, con l’opinione pubblica, con le polemiche, con i dati, con le paure… era diventato un lavoro a tempo pieno. E io non ce la facevo più.
Fu così che, da un estremo, passai all’altro, e smisi completamente di seguire le notizie. Un taglio netto. Una specie di auto-esilio informativo.
Mi dissi: “Tanto, se qualcosa è davvero così importante che io la debba sapere, allora la saprò comunque. Qualcuno me lo dirà, mi raggiungerà per forza.”
E così, iniziai a chiudere le finestre sul mondo per poter aprire, finalmente, qualche porta dentro di me. Non volevo più sapere nulla di nessuno.
Oggi, a quattro anni di distanza da quel taglio netto, posso dire con una certa serenità che sì, ha funzionato. Prendere le distanze dalle notizie ha migliorato la qualità della mia vita in modi che allora non avrei nemmeno saputo immaginare.
È stato come spegnere la radio del mondo per accorgersi finalmente del mormorio continuo che veniva dall’interno. E in quel silenzio nuovo ho imparato a riconoscere le voci, a dare un nome ai pensieri, a smettere di aggrapparmi a emozioni che non mi servivano più.
Ho iniziato, insomma, a diventare padrone delle mie reazioni. Non dei fatti, ma di come quei fatti mi attraversavano.
Eppure, durante tutto questo tempo, nel fondo della testa, in un angolo che potremmo chiamare nuca o coscienza, ha continuato a pulsare una strana sensazione. Qualcosa di simile al disagio. O al senso di colpa. Una vocina che non faceva fracasso ma nemmeno taceva mai del tutto, e che ogni tanto mi sussurrava:
“Sei sicuro di non star tradendo una parte di te? Quella che ha sempre creduto che sapere, conoscere, essere consapevoli della sofferenza degli altri fosse un dovere morale, prima ancora che un’abitudine intellettuale?”
Perché sì, io l’ho sempre pensato: sapere è giusto, anche se non puoi intervenire. Anzi, forse proprio perché non puoi intervenire. È una forma di rispetto. È riconoscere l’altro, anche se è lontano. È dire: “Ti vedo.” È restare umani.
Ultimamente, quella vocina ha ricominciato a farsi sentire più chiaramente. Non so se per stanchezza, o per un nuovo ciclo che inizia, ma mi sono trovato ad ascoltarla di nuovo.
Ne parlavo qualche mese fa con la mia ragazza.
Mi ha detto qualcosa che mi ha fatto riflettere più di quanto le abbia mostrato in quel momento. Mi ha detto che, in fondo, oggi come oggi, con i social e la connessione continua, le notizie non si possono davvero evitare. Ti raggiungono comunque, anche se chiudi tutte le finestre.
Non è più una questione di accesso, ma di scelta. La differenza non sta nel riceverle o meno. Sta nel decidere se te ne frega o no.
E poi ha aggiunto: “Se non te ne frega, allora sì, è egoismo. Perché anche tu vivi qui, con tutti gli altri. E se succede qualcosa dall’altra parte del mondo, anche se non la puoi cambiare, succede pur sempre in casa tua. La Terra è casa. E noi siamo coinquilini.”
Quella frase mi è rimasta addosso. Mi ha fatto da specchio. E mi sono visto per quello che ero diventato: uno che si era protetto, sì, ma anche uno che aveva smesso di partecipare.
Perché la vera differenza, alla fine, non sta nel sapere o non sapere. Né nel provare empatia o restarne immuni. Sta nel modo in cui scegli di portare quel peso: o lasci che ti schiacci, o impari a camminarci affianco.
Ma come si fa, allora, a interessarsi senza farsi travolgere?
È la domanda che mi porto dietro da mesi, forse anni. Perché io mi conosco. So quanto sono permeabile, quanto assorbo tutto come una spugna dimenticata sotto la pioggia.
Anche se oggi sono molto più consapevole, più centrato, più capace di riconoscere e regolare le mie emozioni, so anche che l’equilibrio è fragile. Che basta un’inclinazione sbagliata per far scivolare tutto di nuovo.
E allora, se tornassi a informarmi ogni giorno, se riaprissi il rubinetto del mondo, anche solo un po’, so che c’è il rischio di tornare in quel circolo vizioso. Magari con meno intensità, certo. Ma il veleno, anche se diluito, resta veleno.
Ed è qui che succede qualcosa che ha quasi il sapore del magico. Perché la soluzione, quella vera, non me la sono dovuta andare a cercare. È arrivata da sé. Come se l’avessi desiderata abbastanza da chiamarla, e lei avesse deciso di bussare alla mia porta.
Ma prima di svelare cosa mi ha fatto capire come tenere insieme cura e lucidità, informazione e salute mentale, devo tornare all’inizio. A quel momento che ti ho solo accennato. A quella porta dell’ostello che si è aperta il primo giorno della stagione.
Perché tutto è iniziato lì, con quella persona che l’Universo ha mandato nella mia vita, e nella mia storia.
Appena due settimane prima avevo lanciato il podcast de La Cantina dei Dannati. Un progetto nato con l’idea di conoscere persone interessanti, ascoltare storie e imparare nuove lezioni.
Mi ero fatto una lista di ospiti che avrei voluto avere. L’avevo divisa in tre colonne: abbordabili, difficili, quasi impossibili.
Il primo nome nella colonna dei quasi impossibili era Matteo Gracis.
Molti lo avranno conosciuto negli ultimi anni, forse a partire dal terremoto sociale e mediatico del Covid. Ma io lo seguivo da molto prima che diventasse una figura divisiva, da quando, per me e per tanti, era la voce del mondo della cannabis in Italia.
Con la sua rivista DolceVita, Matteo rappresentava un faro per chi cercava informazione libera e controcorrente in un settore ancora troppo spesso frainteso. Io ero uno di quei lettori fedeli. Ogni due mesi la rivista arrivava puntuale a casa, e ogni volta era come ricevere un pacchetto da un amico lontano.
Poi arrivò la pandemia. E con essa, il caos. Un delirio di terrore e informazione continuo che sembrava voler schiacciare ogni dubbio, ogni domanda scomoda.
Matteo, in mezzo a quel frastuono, fece quello che in pochi ebbero il coraggio di fare: fermarsi, ascoltare, e poi domandare. Domande scomode, a volte impopolari, ma sincere. E in quell’atto di rottura, in quella volontà di dare voce a chi si sentiva smarrito, trovò un’enorme risonanza. Fu lì che il suo nome cominciò a circolare più forte, che la sua figura divenne simbolo di una parte dell’Italia che si sentiva fuori posto.
A me, personalmente, fece un grande bene. In quel periodo mi sentivo confuso, arrabbiato, disorientato. Le sue parole mi fecero sentire meno solo.
Erano gli anni in cui vivevo a Valencia. Ricordo che un giorno, mentre scorrevo le sue storie su Instagram, riconobbi all’improvviso un angolo della mia città. Non ci pensai due volte. Gli scrissi. Così, di getto.
“Hey Matteo! Sei a Valencia? Andiamo a berci una birretta insieme?”
Non esitò. Due giorni dopo, ci ritrovammo davanti a quella meraviglia che è la Ciudad de las Artes y de las Ciencias. Da lì, ci spostammo in un piccolo bar nei dintorni e passammo un’oretta piacevole, senza fretta, come se ci conoscessimo da più tempo di quanto in realtà fosse.
Mi colpirono molte cose di lui. La sua capacità di ascoltare, innanzitutto. E poi quella disponibilità che non è solo gentilezza, ma presenza vera. Ma più di tutto, mi colpì la sua umiltà. Matteo, al netto di quello che può apparire online, è uno di quegli esseri umani rari che sanno stare al mondo senza bisogno di imporsi.
Perché sì, nei suoi video a volte appare duro, tagliente, quasi incattivito. Ma nella vita reale è l’opposto. È rilassato, tranquillo, aperto. Non finge, semplicemente mostra lati diversi a seconda del contesto. E quando affronta certi temi che gli stanno a cuore, quando sente l’urgenza di dire qualcosa che reputa importante, allora viene fuori quella fiamma, quel fuoco che lo anima, quella passione che a tratti può sembrare rabbia, ma è solo amore per ciò in cui crede.
Dopo quell’incontro non ci furono altri contatti. Le nostre strade si separarono, ma io continuai a seguirlo. A osservare il suo lavoro. A lasciarmi ispirare da quel modo suo, così radicalmente onesto, di stare nel mondo.
Poi, giunse maggio 2025, la mia terza stagione estiva in quel vecchio edificio sperduto nel nulla gelido del sud dell’Islanda.
Come dicevo, avevo appena lanciato il podcast, ma dentro di me si annidavano dubbi che ogni giorno facevano a pugni con l’entusiasmo iniziale: è davvero una buona idea?
Tra la fatica di registrare, di montare i file audio, di inseguire ospiti da contattare e studiare, il progetto si rivelava una sfida gigantesca.
Avevo bisogno di un segnale, un segno dall’Universo che confermasse che quella strada, per quanto ardua, era quella giusta da percorrere. E quel segnale arrivò, inaspettato e chiaro, perché il primo ospite della stagione a varcare la porta d’ingresso dell’ostello fu proprio Matteo Gracis. Non riuscivo a crederci.
Matteo, ovviamente, non si ricordava di me, né di quel breve incontro in terra spagnola qualche anno prima. Io invece sì, e glielo raccontai.
Dopo aver dato una mano a lui e ai suoi amici a pianificare il loro itinerario per quei giorni islandesi, trovai dentro di me quel briciolo di coraggio che combatteva la voce interiore più timorosa. Quella che mi sussurrava di non disturbare, di restare nell’ombra, di farmi i cazzi miei. Ma scelsi di ignorarla, e gli chiesi qualche minuto del suo tempo.
Ancora una volta, senza il minimo esitare, Matteo si sedette accanto a me e assunse il ruolo di mentore. Mi offrì consigli di carriera, suggerimenti pratici su come crescere sui social, strategie da adottare per la newsletter.
Ma non furono solo parole di tattica: furono consigli di vita, doni di chi conosce la strada e ha la pazienza di indicarla a chi la sta cercando. Quei cinque minuti si dilatarono, si trasformarono in quaranta, e io ascoltavo rapito.
A un certo punto, decisi di abbassare la guardia e di condividere con lui una certezza che porto dentro da sempre: io non credo nelle coincidenze. Gli parlai del podcast e della mia lista di ospiti. E per fortuna anche lui, in qualche modo, non crede nelle coincidenze.
Così, con un filo di timore e il cuore che batteva forte, gli chiesi se avrebbe voluto essere mio ospite nella Cantina dei Dannati.
E di nuovo, senza esitare, disse di sì. Abbiamo registrato la settimana scorsa (l’episodio uscirà questo mercoledì).
Durante la nostra conversazione c’è stato un passaggio che mi è rimasto incollato addosso, come una frase che non smetti di ripeterti in testa.
Matteo mi ha parlato di un concetto che lui stesso ha battezzato La strategia delle due strade. Mi ha colpito perché è semplice, ma spietatamente vero: si tratta di imparare ad essere guerrieri con il sorriso.
Cosa vuol dire? Vuol dire che bisogna lottare per ciò in cui crediamo, per i nostri ideali, per tutto quello che riteniamo giusto. Ma non possiamo permettere che questa lotta ci divori. Perché se imbocchi solo la strada della battaglia, finisci per incattivirti. Per diventare duro, cinico. Per desiderare, anche se non lo ammetti nemmeno a te stesso, il male di chi la pensa diversamente.
E a quel punto non importa più quanto sia giusta la tua causa: non stai portando niente di buono al mondo. Non stai cambiando assolutamente nulla. Ti stai solo incazzando.
Per questo, diceva, bisogna camminare anche sull’altra strada. Quella del piacere, della leggerezza, della vita vissuta. Sono due strade parallele, entrambe necessarie. Se trascuri quella della gioia, prima o poi crolla anche quella dell’impegno. Se non riesci a stare bene con te stesso, se non trovi un equilibrio con chi sei e come vivi, non potrai mai portare qualcosa di veramente buono agli altri.
E poi c’è un’altra cosa che mi ha detto e che mi è rimasta impressa: non dobbiamo imparare ad evitare lo stress. Lo stress è inevitabile. Quello che possiamo fare è scegliere il tipo di stress che vogliamo affrontare. Non subire tutto, ma orientare le nostre energie. Scegliere cosa vale la pena di farci venire il mal di testa.
In parallelo, dobbiamo coltivare ciò che ci nutre. Fare cose che ci piacciono davvero. Viaggiare. Perdere tempo in ciò che ci entusiasma. Suonare, disegnare, scrivere, correre, amare. E intanto, nel nostro piccolo, informarci. Farci un’idea. Condividere quel che pensiamo.
Perché anche se ci sembra di non contare nulla, non è vero. Sulla scala dell’universo forse sì. Ma su quella del nostro micro-mondo, contiamo eccome. Una parola giusta detta oggi può cambiare una persona. E quella persona, domani, potrebbe cambiare qualcun altro.
Isolarsi, invece, come ho fatto io per un po’, cercando di evitare ogni fonte di stress, ogni notizia, ogni rumore di fondo, oggi mi appare per quello che è: un comportamento egoista.
Ma di nuovo: come si fa, concretamente? Come si fa a restare informati senza farsi travolgere? A trovare un equilibrio tra consapevolezza e salute mentale?
Ed è qui che, ancora una volta, l’Universo mi ha lanciato un segnale. Una specie di risposta inaspettata, ma perfettamente in linea con le mie domande di questi giorni.
Qualche giorno fa mi ha scritto un altro Matteo. Stavolta dalla redazione di Good Morning Italia. Mi ha contattato per complimentarsi per la mia newsletter e per parlare di possibili collaborazioni.
Ho cominciato a esplorare il loro lavoro, e ho capito che era esattamente quello che stavo cercando. Una bussola. Un punto di partenza per questo nuovo approccio che voglio avere con l’informazione.
Good Morning Italia è una newsletter che ti arriva ogni settimana con un riassunto delle notizie principali, in pillole. Niente fronzoli, niente bombardamenti di stimoli o articoli infiniti. Solo l’essenziale. Il quadro generale. Te la cavi in pochi minuti e sei aggiornato, consapevole, informato, ma senza doverci lasciare dentro la tua pace o avvelenarti il fegato.
E allora sì, forse è proprio da qui che voglio (ri)cominciare. Informarmi per davvero, ma senza perdermi. Leggere, capire, farmi un’idea, e poi decidere cosa farci con quell’idea. Senza più scuse tipo “non ho tempo” o “mi fa male”.
Per questo oggi, dopo quattro anni di silenzio informativo, ho riaperto con cautela le finestre.
Perché il mondo non ha bisogno di eroi stanchi o spettatori anestetizzati. Ha bisogno di testimoni attenti.
E io, oggi, scelgo di essere uno di loro. Ma a modo mio.
Con un orecchio al mondo, e l’altro al cuore.
A domenica prossima,
Se ti rispecchi anche solo un minimo in questo racconto e non sai da dove cominciare, ti consiglio di iscriverti a Good Morning Italia: ogni settimana riceverai un riassunto essenziale delle notizie principali. Poco rumore, molti fatti. E, chissà, magari anche tu tornerai ad affacciarti piano piano sul mondo.
Ciao Riccardo. Grazie per la tua testimonianza 🙏😊✨
Bravo Riccardo.
Non scrivo spesso, ma ti leggo sempre.
Sei sulla Strada.
E ci sei riuscito da giovane.
Hai avuto successo in un'Impresa che normalmente richiede essere assai più vecchi.
Tutto quel che desideri per te accadrà.
Diverrai l'Uomo che immagini.
Perché noi, alfine, diveniamo quel che pensiamo.
Diventiamo l'idea che abbiamo di noi stessi.
Nel bene quanto nel male.
Per questo è sbagliato umiliare se stessi, essere troppo cattivi per gli sbagli commessi se l'intento era virtuoso.
Noi siamo i nostri pensieri su di noi.
Abbi stima di te.
Noi che ti leggiamo la abbiamo.
Buona fortuna Viaggiatore.
Che la Vita ti si dischiuda innanzi.
Buon cammino Fratello.
Leo