Benvenuto nella Cantina dei Dannati!
Mi chiamo Riccardo Cecco. Sono un viaggiatore senza dimora fissa, giro per il mondo e scrivo online.
Parlo di storie vere, viaggi e cambiamenti.
Nessuna stronzata.
Se sei finito qui per caso, forse non è un caso. E se qualcosa ti suona familiare, beh... versati un bicchiere e fatti un giro nella Cantina!
Santiago stringeva la ringhiera arrugginita del rooftop bar come se stesse trattenendo il mondo intero dal cadere giù.
“Perché è successo? Com’è possibile che ci siamo uccisi con le nostre stesse mani?” pensava.
Un tempo, da lì, Kuala Lumpur sembrava viva. Le torri gemelle torreggiavano come due spade di luce, la KL Tower bucava il cielo e le luci dei grattacieli pulsavano come se la città respirasse. Ora, restava solo il fiato spezzato, i vetri infranti, le crepe nel cemento e le viscere aperte dei palazzi.
Il bar, come per miracolo, era ancora in piedi.
Santiago ci tornava ogni sera.
Sedeva sulla stessa sedia, guardava la stessa skyline sventrata, e si faceva la stessa domanda:
“Perché non la faccio finita anche io?”
Aveva vissuto troppo. Era sopravvissuto troppo. E adesso il corpo cominciava a opporre resistenza. Non dormiva, non pensava, non distingueva più la realtà dall’immaginazione. Le notti erano un’eco distorta; le giornate, una punizione per non essere riuscito a spegnersi durante la notte.
E intanto le pillole si moltiplicavano.
Le trovava ovunque: nelle tasche, sotto le scarpe, dentro i bicchieri. Non ricordava più se le ingoiava o se le sognava. Forse era lui stesso ad essere entrato nella boccetta.
E non riusciva più a uscirne.
La sveglia non suonava più da anni, ma Santiago si svegliava lo stesso. Sempre alla stessa ora. Sempre con la stessa nausea in gola.
Apriva gli occhi e non capiva se era mattina, sera, un sogno o l’ennesimo blackout. C’era sempre silenzio. Ma non il silenzio della tranquillità, quello che calma. Era il silenzio delle cose morte. Degli ascensori bloccati, dei frigoriferi vuoti e dei bambini mai nati.
Ogni giorno faceva un giro per il quartiere di Chinatown. Si muoveva tra le macerie come un cane randagio, senza sapere cosa stesse cercando. Una lattina ancora sigillata. Una radio accesa. Un viso.
Una volta trovò un manichino decapitato e ci parlò per ore. Lo chiamò Pedro. Gli raccontò di quando a Barcellona si era ubriacato tanto da dimenticare il proprio nome. Pedro rise, o forse fu il vento.
Nel pomeriggio saccheggiava le farmacie. Non per bisogno, ma per compulsione.
Ogni bottiglietta era una piccola promessa: stavolta dormi, te lo giuro.
Le etichette non avevano più senso. Xanax.
Zolpidem.
Clonazepam.
Lorazepam.
Erano solo suoni. Le ingoiava con l’acqua piovana raccolta nei secchi, e aspettava. Nel frattempo parlava con i fantasmi. Con la ragazza dai capelli rossi che lo aveva lasciato. Con sua madre, morta prima della guerra. Con il Santiago di trent’anni, che lo guardava deluso da un riflesso.
Ogni sera tornava sul rooftop. Stesso bar, stesso tavolo. Il cielo cambiava, lui no.
Quando la notte scendeva, Santiago accendeva una fuocherello per creare un po’ di illuminazione e mormorava: “Ci dev’essere stato un errore. Io non dovrei essere ancora vivo.”
Una sera la rivide. O almeno, pensò di vederla. Era sul bordo del tetto, in piedi. Una silhouette d’ombra contro un tramonto tossico. Una ragazza. Troppo magra per essere vera, troppo immobile per essere viva. Aveva i capelli rossi.
Santiago deglutì a vuoto. Gli tremavano le ginocchia.
“Sei tornata?”
La voce gli uscì come un rantolo. Lei non rispose né si voltò. Solo un movimento, appena percettibile: un braccio sollevato, come a salutare.
Santiago barcollò, inciampò in una sedia rotta e si tagliò una mano su una bottiglia spezzata. Non sentì dolore. Rimase lì, inginocchiato, a fissarla come si fissa un miraggio.
“Ti ho immaginata. Sei solo un’altra allucinazione da sonnifero e desolazione.”
Ma lei era ancora lì. Per minuti. Forse ore. Poi svanì, senza muoversi. Come se la notte l’avesse inghiottita. Come se non fosse mai esistita.
Quella notte, Santiago prese più pillole del solito. Le buttò giù a manciate, senza contare. Le voleva tutte. Voleva affogare il cervello, scioglierlo, disinnescarlo. Che dormisse o morisse era uguale.
Eppure, non dormì né morì.
Sentì il corpo diventare pesante e leggero insieme. Le mani fluttuavano. La bocca gli si riempì di sabbia. La terrazza si stirava, si accartocciava e si piegava come un foglio bagnato.
Poi cominciarono le voci. Alcune le conosceva, altre non le aveva mai sentite. Parlavano tutte insieme, parlavano di lui. Lo accusavano, lo deridevano, gli sussurravano dolcemente di arrendersi. Cercò di urlare, ma dalla gola non uscì niente.
Quando tornò lucido, o quasi, era ancora sul tetto. Le braccia graffiate, le labbra spaccate, il cuore che batteva forte come se ci fosse ancora qualcosa da salvare.
Eppure, lo sapeva: qualcosa si era rotto. Dentro, sotto, in profondità. Una crepa irreparabile che avrebbe iniziato a spaccare tutto.
Il giorno seguente non si svegliò, semplicemente ricominciò.
Si ritrovò in piedi in un centro commerciale semidistrutto, senza sapere come ci fosse arrivato. Il cielo, dietro il tetto sfondato, era un blocco di cenere. Le vetrine erano scheletri di vetro e acciaio, le scale mobili ferme, impolverate e colonizzate dai piccioni.
Camminava come in sogno, trascinando i piedi, una mano in tasca a stringere l’unica cosa che gli dava sollievo: il flacone.
Mancavano solo tre pillole. Una per la sera. Una per l’insonnia. Una per l’illusione di non essere solo.
Nello specchio rotto di un negozio vide il proprio riflesso. Era vecchio. Più vecchio dei suoi 44 anni. Occhiaie come ferite, pelle gialla, barba incrostata di giorni e sputi.
Vide qualcosa muoversi alle sue spalle.
Si girò di scatto. La ragazza. Ancora lei. Ma stavolta parlava.
“Perché non te ne sei andato quando potevi?”
“Sei reale?” chiese Santiago.
Lei sorrise tristemente.
“Tu no.”
E svanì con la stessa velocità con cui era apparsa.
Santiago si portò le mani alla testa. Le grida uscirono a strappi. Si lasciò cadere a terra, tra detriti e cartelloni pubblicitari bruciati.
“Mi arrendo!” urlò.
“Mi arrendo, avete vinto, potete spegnere tutto adesso!”
Ma non c’era nessuno, se non un rimbombo lontano.
Ripensò a tutto.
Alle notti folli a Bangkok. Agli amori sciupati a Medellín. Al rooftop bar di KL, quando il futuro sembrava ancora un posto raggiungibile. E a quella prima notizia, tanti anni prima, della guerra in Europa.
La Russia attacca l’Ucraina.
Arrivò tramite una notifica sul telefono mentre beveva gin tonic e rideva con degli sconosciuti. Se lo ricordava ancora. All’epoca non ci aveva dato peso. Era una realtà troppo distante dalla sua per preoccuparsene davvero. Non era altro che un’altra guerra lontana, un altro pezzo di mondo che bruciava da solo.
Poi, però, il resto: Pakistan e India, Iran e Israele. L’America. L’Europa. Una catena di micce accese con le mani. Una gara a chi cadeva per ultimo. E adesso non c’era più niente. Solo lui, l’insonnia e le allucinazioni.
“Mi arrendo,” ripeté.
Ma anche le voci erano stanche, adesso. Perfino i fantasmi l’avevano lasciato solo.
Quella notte, il sonno lo prese a tradimento. Non fu né dolce né ristoratore. Fu uno schianto.
Nel sogno, Santiago tornava al rooftop. Ma c’era la musica. I neon. Un gruppo di ragazzini ubriachi.
Le Petronas si riflettevano negli occhi di un ragazzo che rideva. Era lui. Santiago si vedeva da fuori, giovane, pieno e vivo. Diceva cose stupide, rideva per sciocchezze, beveva birra e agitava le mani mentre raccontava la storia di quando era quasi morto in Bolivia.
Lo osservava come si guarda un estraneo.
Poi, lo vide alzarsi.
Camminare verso il bordo del rooftop.
Scavalcare.
Senza fretta.
E prima che potesse gridare, svegliarsi, salvarlo… il corpo si lanciò nel vuoto.
Santiago si destò con un urlo.
Tastò le tasche. Il flacone era vuoto. Era finita. Le aveva finite. Tutte. Fuori era l’alba. C’era una luce torbida, stanca, quasi grigia.
Santiago uscì dal centro commerciale come un cane abbandonato. Camminava senza meta. Senza fame. Senza un posto dove andare.
Poi, una scritta sul muro.
Un graffito che non c’era prima. O forse sì, ma non l’aveva mai visto.
Si fermò.
Rilesse.
E per la prima volta in giorni, forse settimane, rise.
Una risata secca, impastata, spezzata.
Restò lì, a fissare il muro. E qualcosa, nella sua testa, iniziò a mutare. Non un pensiero, ma una frattura. Un’incrinatura nel delirio.
Forse non era l’unico a essere sopravvissuto. Forse qualcun altro era lì, e aveva scritto quel messaggio. Forse la bomba finale non era quella degli uomini. Ma quella che ti porti dentro, quando credi che niente valga più la pena.
Forse non aveva ancora finito.
Il sole si era alzato, ma sembrava stanco. Santiago camminava verso il centro. I vetri esplosi sotto i piedi facevano il suono della neve quando la pesti piano. Gli alberi erano secchi. I palazzi sventrati. Il cielo, ancora grigio.
Ma c’era qualcosa di diverso dentro di lui.
Per la prima volta da mesi, la voce nella testa taceva. Nessun pensiero a interrompere il passo, nessun delirio da rincorrere. Solo il rumore dei propri piedi, e il vento che fischiava tra i palazzi.
Dopo un po’ tornò al rooftop, si sedette al solito posto, chiuse gli occhi e inspirò. Niente pillole. Niente sogni. Solo la stanchezza vera. E mentre il vento gli accarezzava il viso, si lasciò cadere contro lo schienale, e dormì. Fu un sonno senza fuga, senza bombe, senza ragazze sparite. Solo il peso del proprio corpo, e il silenzio.
Quando si svegliò, ore dopo, o forse giorni, sentì un rumore.
Non era il vento che spostava dei detriti.
Era un passo.
Aprì gli occhi.
E davanti a lui, in controluce, c’era qualcuno.
Forse una donna. Forse un’ombra. Forse solo la mente che ricominciava a giocare.
Non importava.
Santiago accennò un sorriso stanco, ma pieno di speranza.
Forse non era ancora finita.
A domenica prossima,
Grazie per aver letto fin qui!
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Complimenti...piacere Stefano da Roma. Una storia molto profonda.
Spero che scrivi ancora questi racconti...sto attraversando un periodo molto particolare della mia vita.